Friday 29 March 2013

Quelli che camminano da soli



Ci ho sempre pensato, ho sempre fantasticato sulle loro vite. Quelli che camminano da soli sono in tutte le città, ma nei piccoli paesi li conoscono tutti. Poi è arrivato lui e ne ha scritto. Lui è Diego De Silva in “Sono contrario alle emozioni”. E li ha descritti così bene che qualsiasi mio tentativo sarebbe inutile.

E poi ci sono quelli che camminano da soli. Non si sa più quanti anni hanno. Macinano chilometri al giorno, per dare un lavoro al corpo. Hanno due andature possibili: rigida e costante da marionette, o curva e sincopata, scoliotica. Gli appartenenti al secondo gruppo fanno anche delle lunghe chiacchierate con se stessi, a volte gli scappa una battuta e ridono. […]Si sono inventati nemici invisibili che architettavano complicatissimi complotti ai loro danni. Hanno perso la fiducia negli amici. Hanno cominciato a pensare alla morte.
Il mondo circostante, i loro genitori,  hanno sperato che si trattasse di un disagio transitorio.[…] Ma sono passati solo gli anni e i loro figli hanno continuato ad attraversare la città senza andare da nessuna parte.

Si ricordano di te, misurano nella tua figura adulta la vita che non hanno avuto, ti guardano con dolcezza. Ti puntano per strada da lontano. Hanno capito eccome che ti stai sforzando di tenere lo sguardo sulla tua retta invisibile, sperando che non ti vedano, allora fanno i distratti solo per confonderti e poi virare bruscamente. Ti fermano e ti chiedono cose che gli hai già detto. Ti ricordano episodi accaduti trent’anni prima. Anni in cui avevano desideri e aspettative e  si sentivano come te.  E’ faticoso ascoltarli, imbarazzante trattenersi, triste separarsi. Perché quando te ne vai accusi un peso.  
[…]

Forse molti di loro non ce l’hanno fatta a pagare la cambiale di una vita che magari neanche volevano, e si sono difesi così. La distanza fra loro e gli altri è cresciuta di giorno in giorno, finendo per assumere le caratteristiche di un indebitamento che li ha convinti che l’unica strada per uscirne fosse dichiarare fallimento. 

 La mia camminatrice solitaria si chiama Carmela, vive nel paese dei miei nonni. Cammina quasi quanto parla. Parla tantissimo, da sola e con gli altri. E’ sempre truccata e ha i capelli raccolti con la stessa acconciatura delle signore molto più anziane di lei. Ha cominciato a fermarmi da adolescente e da allora conosco le sue parole a memoria. 

“A chi sei figlia?” “Ah, ho capito. Tua madre è proprio una bella ragazza. Ma pure io eh.” “E come ti chiami?” “Mia figlia in Brasile ha un’amica che si chiama così.” “Li vedi quelli là? Parlano tutti di me, perché mi invidiano. Non li pensare mai a quelli.” “Pure tu diventi bella. Ciao né’”.

E io rimanevo lì, ad anticipare con la mente ogni sua parola, ma a stupirmene di nuovo ogni volta. Come se ogni volta non sapessi ancora che “mia madre”  a cui si riferiva  è la ragazza di trent’anni prima; o che sua figlia in Brasile l’ha vista solo dopo averla fatta nascere. 

E subito dopo mi chiedevo se ci si accorge di aver deciso di vivere guardando gli altri passare; o se poi, in un giorno qualunque ti volti indietro e non trovi più i tuoi anni. Se è facile, difficile o come succede di arrivare al punto di inventarsi una vita pur di averne una. Quante persone si devono dimenticare per camminare da soli, o a quante si debba pensare così tanto da non poter stare seduti. 

Oggi Carmela non mi ferma più, ma ha un dente d’oro e ride tantissimo quando cammina.

Wednesday 20 March 2013

Parallelismi. Un indispensabile update: il gran rifiuto.

Ripropongo questo post dell'aprile 2012, per un indispensabile update: un'affinità che mi era inspiegabilmente sfuggita, che troverete nel paragrafo in giallo. IL GRAN RIFIUTO


Durante una delle frequenti conversazioni sulla mestizia dei nostri tempi con la mia amica D., (compagna di  riflessioni sui massimi sistemi, nonché di amare constatazioni sulla volatilità dei tessuti H&M), è venuta fuori un’inquietante analogia tra due drammi contemporanei: mancanza di lavoro e moria di uomini al di sopra del livello minimo di sussistenza.
Ai fini della nostra indagine, procederemo quindi per fasi, sottolineando i risvolti più interessanti.
FASE 1: LA SCOPERTA
Lavoro: trovi un annuncio; ad una superficiale analisi decidi che è il lavoro che fa per te, cominci a sognarlo come il punto di partenza della tua brillante carriera. Immagini quando dirai: “pensa, io ho cominciato così”. Ritocchi il CV a seconda delle esigenze, invii e speri.
Vita sentimentale: trovi un ragazzo che potrebbe avere delle potenzialità, fermandoti  a quel meraviglioso stadio delle apparenze, che ti inducono alla ragionevole certezza che sia l’uomo della tua vita. Speri. E per ogni evenienza prenoti una ceretta.
FASE 2:  L’INCONTRO
Lavoro: ti prepari trionfalmente al colloquio. Fai la sciolta, ti vendi anche le tre parole di cinese che hai imparato  in Erasmus, ripeschi un corso fatto in terza media per ricercare una certa coerenza con il lavoro in questione. Grandi sorrisi, te ne vai pensando che è quello che vuoi. Sei sicura di aver fatto una buona impressione.
Vita sentimentale: ti prepari trionfalmente all’appuntamento/occasione in cui lo vedrai. Fai la sciolta, scegli una sapiente combinazione di vestiti che dovranno sembrare casuali, fai sfoggio dei tuoi più brillanti argomenti di conversazione. Grandi sorrisi, te ne vai pensando che vuoi rivederlo e che lo rivedrai, perché c’è stato qualcosa/si è capito che vi piacete.
FASE 3: L’ATTESA
(Qui cominciamo con le analogie evidenti, per cui la suddivisione appare superflua).
Entrambi potrebbero chiamare da un momento all’altro. A chi ti chiede se aspetti una telefonata, visto che il cellulare è diventato un’estensione della mano e che anche in caso di scossa di terremoto ti assicuri prima  che non sia la vibrazione del telefono, rispondi dicendo che “è l’abitudine”. Ora, a seconda degli esiti, le fasi successive possono essere due:
FASE 4-a: IL DUBBIO ETERNO
La telefonata non arriva. Dopo aver passato in rassegna tutte le eventualità per le quali sono stati impossibilitati a chiamarti, che variano dalla dissenteria ad un’improvvisa tromba d’aria che gli ha portato via il cellulare e tutti gli altri mezzi di comunicazione, arrivi alla lenta ma inesorabile constatazione, che prima o poi tocca a tutte: “il problema sono io”. Il momento successivo è il più deleterio, soprattutto per chi ha la sventura di raccogliere le tue confidenze. La tua mente sarà occupata a tempo pieno da fantasiose ricostruzioni, che argomenterai  con convinzione anche al gatto. Possiamo individuarne una successione cronologica:
  1.     Sono una mezza sega; 
  2.   Tutti gli altri erano più bravi di me, anche la signora delle pulizie / gli piace una strafiga- gattamorta che era lì quella sera- è fidanzato  con una che non lascerà mai perché è molto meglio di me.
  3.  Non ero abbastanza sicura/ non ero abbastanza attraente.
  4.  Ero troppo sicura di me/ ero troppo certa di piacergli.   
  5. Sono degli stronzi/ è uno stronzo.
Inutile dire che il ciclo di opzioni si ripeterà più volte, ma la numero 5 resterà la tesi più accreditata nel tempo.

FASE 4-b: IL VERDETTO
Opzione 1. La telefonata arriva.
(NDR Qui devo purtroppo proporre un ragionamento per assurdo, una forzatura indispensabile per una lettura assoluta della realtà: cioè l’ipotesi in cui ti comunichino che non sei stata presa per il lavoro, spiegandotene le ragioni, e quella ancora più creativa per cui l’uomo in questione si faccia vivo per spiegarti perché non vuole farsi più vivo).
 Anche in questo caso, inquietanti similitudini nelle motivazioni addotte:
  1. “abbiamo trovato un candidato maggiormente idoneo alla posizione”/ “mi sono innamorato l’altro ieri di un’altra”, che è la versione ufficiale di “stavo dietro a più ragazze e mi sono messo con la prima che me l’ha data”
  2.  “abbiamo riscontrato l’assenza di alcuni dei requisiti per noi fondamentali”/ “Siamo incompatibili”
  3.  “lei ha un eccellente CV e ottime esperienze, ma  troppe per i requisiti richiesti. Preferiamo profili più bassi, ma che possano crescere con noi. Insomma, overqualified.” / il leggendario “MI INTIMORISCI”.

Opzione 2: IL GRAN RIFIUTO

Dopo che ti è stato opposto il gran rifiuto, amici e parenti cercano carinamente di consolarti. In genere si lanciano in sperticate lodi alla tua persona. Le opzioni sono due, dalle sottili differenze:


  1. Tu meriti di più
"ma poi, diciamoci la verità:  tu eri proprio sprecata per quel lavoro/ ma l'hai visto quello lì, ma che ha di speciale? Ha una risata orribile e secondo me ha pure votato Berlusconi."
E' la versione più efficace. L'espressione "tu meriti di più" ti rende soggetto attivo della situazione e della celebrazione in atto, anche se un po' forzata. Ci credi un po'.

  2. Non ti merita
Il contenuto è essenzialmente lo stesso di cui sopra, che "tu sei molto più-qualsiasi-cosa- di quel lavoro o di quello là". Ma la formulazione è ingannevole. Dopo un breve momento di confusione, il ritorno del raziocinio ti induce a pensare: " ma se dici che io sono tutte queste cose, perchè non mi vogliono?". 
Eh già,  perchè l'amara verità, che nessuno ammetterà, è che "non ti merita" in fondo è comunque "non ti vuole".  
 
Opzione 3, aka CHI ME L’HA FATTO FARE
Ti hanno presa. Otto minuti dopo la sensazione di conquista del mondo, sei assalita dai dubbi. Senti le dorate prospettive di carriera/vita insieme sgretolarsi inesorabilmente. Ti senti già oppressa.
Secondo giorno di lavoro/secondo appuntamento. Preferiresti fare la signora che distribuisce i ticket per l’ingresso nei bagni pubblici piuttosto che interagire con i tuoi colleghi/ non avevi mai notato quei segni dell’acne- e quel dito del piede storto- e “perché è così appicicoso”?
Ed ecco l’ultima, elegante e coincisa analogia: “ Mò so’ ca**i”.

(Nota a margine: avendo a cuore la naturale prosecuzione della specie e  un'efficace evoluzione della civiltà, l’autrice specifica che alcuni studiosi stanno elaborando l’originale tesi per cui sarebbe possibile una terza opzione: essere felici di lavoro e uomo. Tuttavia, è ancora al vaglio degli esperti; ad oggi non è possibile disporre di una rilevante esperienza empirica a riguardo.)


Sunday 10 March 2013

Adolescenze anni 2000: (d)anni di transizione



Tornando a parlare di cose leggere: siamo una generazione sfigata. 


La riflessione è partita qualche giorno fa dal treno, come sempre. Sedute accanto a me, un gruppo di quindicenni che conversavano in allegria. Oscillando tra la tenerezza per i ricordi e la sorpresa per le novità, la mia prima constatazione è che certe cose non cambiano mai: il volume delle adolescenti nel mondo e nei secoli è sempre bloccato sul massimo.
Insomma, la frase clou è arrivata così: “Se lui non mi tagga, io non lo contatto su whatsapp”. Cose che ti fanno sentire di aver avuto 15 anni nel mesozoico. Ma in fondo, solo una decina d’anni fa ero come loro, anche se probabilmente avevo un giubbino di jeans e dei pantaloni lilla. (e già un’altra misura dell’invecchiamento: 10 anni fa sembra poco). Comunque, non voglio giudicare se sia meglio o peggio; non sono mai stata una nostalgica del passato, perché credo che ogni generazione sia figlia del suo tempo. E sono ancora abbastanza giovane per ricordarmi quanto odiavo quelli che dicevano che l’esame di terza media era una cazzata. Figuriamoci poi se posso essere nostalgica del mio, di tempo dell’adolescenza. No, perché, focalizziamoci sui nati tra l’83 e l’88. Quelli di dopo hanno trovato già il mondo cambiato da internet e dalla tecnologia. Quelli di prima sono cresciuti senza, e pace; poi erano già abbastanza adulti per adattarsi. Noi no, noi a cavallo dei cambiamenti, in piena adolescenza. Abbiamo preso il peggio della generazione di prima e di dopo. La sorpresa della novità di chi ci precedeva , unita alla convinzione di saperla gestire di quelli di dopo.

Una generazione di transizione, e si sa che la transizione può produrre danni irreparabili.
Ad esempio, la scrittura bimbominkia l’abbiamo inventata noi: perché con i cellulari a mattoncino e quando la wind non esisteva, e per chi ce l’aveva, internet  a manovella, bisognava risparmiare sui caratteri per far entrare tutto in un solo messaggio. Quindi, cari coetanei che prendete in giro sdegnati gli adolescenti, ricordate che dietro ad ogni “exere” di oggi c’è un vostro “xké” di dodici anni fa. Poi ci sono i quasi 30enni che ancora evitano le vocali come se fossero contagiose, ma quella è un’altra, triste,  storia. 

Noi,  gli sfigati della transizione, abbiamo dato il via ai primi timidi approcci di conoscenza virtuale. Si dice che oggi i ragazzi si conoscono su facebook, che non c’è più magia, che sanno già tutto l’uno dell’altro.  Bene, sappiate che nei pazzi anni 2000, non sapevamo niente ma comunque, nel fascino del nuovo, si utilizzava l’unico mezzo tecnologico disponibile: il suddetto cellulare a mattoncino. Perché, esattamente con la stessa facilità con cui ci si scambia il contatto facebook oggi, ci si scambiava il numero di cellulare, che oggi fa tanto vintage. E capirete che non è proprio la stessa cosa.  Ancora ricordo storie eclatanti di numeri fatti a caso da cui si sperava potesse scoppiare amore eterno. Ora, con facebook succede che vedi una persona, studi il profilo e decidi che magari non è il caso. Che è superficiale, senz’altro, ma pensate che a quel tempo no, questa era una decisione successiva all’incontro, in cui si poteva scoprire che faceva sommo abuso di gel così come di sostanze stupefacenti. O che indossava quelle terrificanti maglie rosa seconda pelle così di moda. (Dite che ancora oggi…?? Vabbè basta rigirare il coltello nella piaga)

I 15enni di oggi saranno anche più smaliziati- voglio dire, Cioè è stato sostituito con Yahoo answers, non mi pare un grande progresso- ma si svelano tramite l’ardita richiesta di amicizia. In risposta, una ragazzina con  media dose di razionalità vede chi è lo sconosciuto, si fa un po’ di fatti suoi, eventualmente declina con un gesto metaforicamente potente: eliminazione. Nell’era della transizione, sebbene persistesse l’evergreen del “ciao bella, ti posso conoscere?” (e di nuovo, ieri ho appurato che ancora oggui...), in genere arrivava un sms da numero ignoto: “Ciao ti ho vista ieri al posto x. Sei bellissima, Ciao. RISP”. (A proposito, ancora si usa RISP? È un’altra delle preziose eredità lasciate? In ogni caso, non credo possa essere stato sostituito con qualcosa di altrettanto patetico). Ora, che cosa potevamo fare in  casi così? Ancora oggi non è stata inventato il blocco delle chiamate e sms da un numero (o no?). Non era meglio poi un piccione viaggiatore ante cellulare? Un classico foglietto sul banco: “ti vuoi mettere con me? SI o NO, metti la crocetta?”.

Disagi indelebili sono stati prodotti sulle giovani vite degli anni 2000. 

Una generazione che ha visto la vita ascellare dei jeans e il fior di culo nel giro di due anni. L’ascesa dei pantaloni bianchi aderenti, che Dio ce ne scampi. Il boom delle trousse Pupa senza tutorial di Clio.
Le prime macchine fotografiche  digitali si sono diffuse quando avevamo all’incirca 18 anni, quando cioè avevamo superato la fase 12-16 in cui tutti, chi più chi meno, sono dei conclamati cessi in via di definizione,immortalata invece con scatti unici e irripetibili. Costrigendoci così a creare un buco nero nei ricordi delle nostre vite dalla prima comunione fino al diciottesimo compleanno.

Abbiamo assistito ad un evento che ha fatto la storia, l’11 settembre, ma eravamo 14enni e impegnati ad abbreviare le parole per gli sms, quindi non ce ne siamo manco resi conto.
Poi dice che oggi siamo una generazione allo sbando. Cosa potevamo aspettarci da chi è stato testimone dell’ascesa di Gigi D’Alessio? Da chi ha ascoltato la sua prima canzone in una gita di seconda media? (scusate, un riferimento autobiografico che non posso ignorare). Da chi ha attraversato gli anni dello sviluppo in un Paese in cui Berlusconi era già un dato di fatto?
Conosco gente che come film preferito ha ancora Titanic, per dire.

Per cui, care adolescenti che oggi pensate di avere i problemi più grandi del mondo: fate bene a crederlo, come abbiamo fatto tutte. Non vi dirò che con il passare del tempo vi sembreranno cretinate. E nemmeno che vi vergognerete di aver ascoltato gli One Direction, prima di ballarli senza pudore quando saranno diventati vintage, come i Backstreet Boys oggi. Ma è bene che sappiate quante giovani vite sono state segnate per arrivare ai vostri smartphone e al vostro tag su uatsap. 

Quanto a noi, non possiamo che appigliarci ai pochi punti saldi rimasti degli ibridi fine anni ’90-2000: 







Friday 1 March 2013

Times like these


Un passo tratto da Naif.Super, di Erlend Loe. Un libro a tratti illuminante che ritorna attuale a fasi alterne della mia vita. Tipo questa.

[…]mi vengono molti pensieri.

Il primo è che dovrei andare in America e guidare una macchina. Sembra così da duri. Guidare e basta.

Il secondo è che sogno di incontrare una ragazza come Alanis e di vivere in una casa con lei. Passeggiare sul bagnasciuga e rivoltare i sassi, e dopo qualche tempo fare un bambino.

Il terzo è che ho un diploma di laurea e non so cosa farò da grande.

Questo per me è un problema. Mi piacerebbe fare qualcosa per rendere il mondo un po’ migliore. Sarebbe il massimo. Ma non so se è possibile. Non so bene cosa si richieda per rendere il mondo migliore. Non sono così sicuro che basti sorridere a tutti quelli che incontro.

Subito dopo viene essere uno di quelli che non fanno nessuna differenza. Di quelli che non rendono il mondo né migliore né peggiore. Può anche non essere del tutto appagante, ma credo siano in molti ad appartenere a questa categoria. Non voglio essere solo.

L’alternativa più brutta in assoluto è di essere uno di quelli che rendono il mondo peggiore. Cercherò di evitarlo. Quasi a ogni costo. M non credo che sia così semplice. Magari finirò a farmi coinvolgere da qualcuno di cattivo e disonesto. Può capitare anche ai migliori. E allora sarò nei guai. E il mondo sarà un po’ peggiore e io smetterò di guardare negli occhi la gente che incrocio per strada