Ci ho sempre pensato, ho sempre fantasticato sulle loro
vite. Quelli che camminano da soli sono in tutte le città, ma nei piccoli paesi li conoscono tutti. Poi è arrivato lui e ne ha scritto. Lui è Diego De Silva in “Sono
contrario alle emozioni”. E li ha descritti così bene che qualsiasi mio tentativo sarebbe inutile.
E poi ci sono quelli
che camminano da soli. Non si sa più quanti anni hanno. Macinano chilometri al
giorno, per dare un lavoro al corpo. Hanno due andature possibili: rigida e
costante da marionette, o curva e sincopata, scoliotica. Gli appartenenti al
secondo gruppo fanno anche delle lunghe chiacchierate con se stessi, a volte gli scappa una battuta e ridono. […]Si sono inventati nemici invisibili che
architettavano complicatissimi complotti ai loro danni. Hanno perso la fiducia
negli amici. Hanno cominciato a pensare alla morte.
Il mondo circostante,
i loro genitori, hanno sperato che si
trattasse di un disagio transitorio.[…] Ma sono passati solo gli anni e i
loro figli hanno continuato ad attraversare la città senza andare da nessuna
parte.
Si ricordano di te,
misurano nella tua figura adulta la vita che non hanno avuto, ti guardano con
dolcezza. Ti puntano per strada da
lontano. Hanno capito eccome che ti stai sforzando di tenere lo sguardo sulla
tua retta invisibile, sperando che non ti vedano, allora fanno i distratti solo
per confonderti e poi virare bruscamente. Ti fermano e ti chiedono cose che gli
hai già detto. Ti ricordano episodi accaduti trent’anni prima. Anni in cui
avevano desideri e aspettative e si
sentivano come te. E’ faticoso
ascoltarli, imbarazzante trattenersi, triste separarsi. Perché quando te ne vai
accusi un peso.
[…]
Forse molti di loro
non ce l’hanno fatta a pagare la cambiale di una vita che magari neanche
volevano, e si sono difesi così. La distanza fra loro e gli altri è cresciuta di
giorno in giorno, finendo per assumere le caratteristiche di un indebitamento
che li ha convinti che l’unica strada per uscirne fosse dichiarare fallimento.
La mia camminatrice
solitaria si chiama Carmela, vive nel paese dei miei nonni. Cammina quasi quanto
parla. Parla tantissimo, da sola e con gli altri. E’ sempre truccata e ha i
capelli raccolti con la stessa acconciatura delle signore molto più anziane di
lei. Ha cominciato a fermarmi da adolescente e da allora conosco le sue parole
a memoria.
“A chi sei figlia?” “Ah, ho capito. Tua madre è proprio una
bella ragazza. Ma pure io eh.” “E come ti chiami?” “Mia figlia in Brasile ha
un’amica che si chiama così.” “Li vedi quelli là? Parlano tutti di me, perché
mi invidiano. Non li pensare mai a quelli.” “Pure tu diventi bella. Ciao né’”.
E io rimanevo lì, ad anticipare con la mente ogni sua
parola, ma a stupirmene di nuovo ogni volta. Come se ogni volta non sapessi
ancora che “mia madre” a cui si riferiva
è la ragazza di trent’anni prima; o che
sua figlia in Brasile l’ha vista solo dopo averla fatta nascere.
E subito dopo mi chiedevo se ci si accorge di aver deciso di
vivere guardando gli altri passare; o se poi, in un giorno qualunque ti volti
indietro e non trovi più i tuoi anni. Se è facile, difficile o come succede di
arrivare al punto di inventarsi una vita pur di averne una. Quante persone si
devono dimenticare per camminare da soli, o a quante si debba pensare così
tanto da non poter stare seduti.
Oggi Carmela non mi ferma più, ma ha un dente d’oro e ride
tantissimo quando cammina.